La mia vita con un po' troppo testosterone per casa...
Ho modificato la grafica del blog. Quella sullo sfondo è l'incasinatissima libreria di casa Piselloni...
Lilypie - Personal pictureLilypie Kids Birthday tickers
Lilypie - Personal pictureLilypie Fourth Birthday tickers

lunedì 6 maggio 2013

Per le nonne. Il fottuto riposino della mattina.



No, un attimo. Se io dico questa frase 

“Sarebbe meglio che Paio non dormisse la mattina, perché sennò dopo pranzo non mi dorme più” 

c’è qualcosa di incomprensibile? Ho usato delle parole straniere? Delle parole arcaiche? La costruzione del periodo è troppo complessa? Ci sono troppe subordinate?
Facciamo che ve la scrivo anche in dialetto: 

Saria meio che Paio nol dormise mia la matina parché senò dopo magnà nol dorme altro.

Così va meglio?
Ma perché cara mamma e soprattutto tu, cara suocera, vi ostinate a far dormire il Paio un po’ anche la mattina? Me lo spiegate? Vi ho ripetuto fino allo sfinimento che anche una mezz’ora di sonno mi pregiudica completamente il riposino pomeridiano e che, comunque, a due anni suonati riesce ad arrivare tranquillamente all’ora di pranzo, cosa che peraltro fa il fine settimana quando sta con me.
Ma voi no, fate di testa vostra. Perché poverino, era tanto stanco, si è messo da solo sul divano e ha preso sonno. Ha voluto che lo prendessi in braccio ed ha appoggiato la testina sulla mia spalla. Sti cazzi.

E sapete qual è il risultato? Che poi io all’una quando torno a casa e lo metto a letto, quello urla come un ossesso e non c’è verso di farlo addormentare. E sta cosa mi fa vorticare le palle alla velocità della luce, perché io, di quelle due ore di solitudine quando un figlio è a scuola e l’altro (dovrebbe essere) a letto, ne ho bisogno come l’ora d’aria i carcerati. Mi servono per stirare, per lavare il bagno, per spolverare, per iniziare a preparare la cena e, per dio, mi servono anche per sedermi un attimo sul divano in santa pace. E se qualcuno mi porta via quelle due ore divento tanto ma tanto nervosa.
Anche perché poi che succede? Che Paio non dormendo il pomeriggio arriva all’ora di cena che ha un sonno terribile e diventa intrattabile. E allora mi verrebbe proprio la tentazione di portarvelo lì così vi ciucciate lui, la sua luna e i suoi pianti isterici.

Grazie a Dio ci sono due mattine a settimana che va al nido e…toh, guarda, pur passando le ore a giocare, correre e disegnare NON DORME. Grazie a Dio due pomeriggi a settimana non torno a casa. Grazie a Dio qualche volta c’è il papà che se lo prende e se lo porta nel lettone con lui. E quindi respiro.

Ma da qui in avanti vi avverto, vige la seguente regola: se fate dormire il Paio la mattina POI VE LO TENETE FINO ALLE QUATTRO.
Se fe dormire el Paio la matina dopo ve lo tegni’ fin le quatro.
Mi sono spiegata?

Ah, giusto per chiarire: Checco ha quattro anni, il pomeriggio dorme una mezzoretta. Non di più. Giusto nel caso quest’estate, con l’asilo chiuso, doveste badare a lui.

venerdì 3 maggio 2013

Aspetta



Ieri pomeriggio stavo giocando insieme ai bambini con i mattoncini di legno. Checco voleva che gli costruissi un casa ed io stavo mettendo diligentemente i pezzi uno sopra l’altro. Lui però pretendeva di anticipare le mie mosse e mettere il tetto quando ancora io non avevo finito la base. “Aspetta un attimo, Checco!”, sbotto ad un certo punto.

E lui: “Aspetta, aspetta, tu dici sempre aspetta”.

Gelo totale. Avete presente una pugnalata in pieno petto? Ecco, penso faccia meno male di questa frase che è uscita dalla bocca di mio figlio di nemmeno quattro anni.
All’istante i miei occhi si sono riempiti di lacrimoni, l’ho abbracciato e gli ho chiesto scusa.
Ma porca misera se aveva ragione. E che merda mi sono sentita.
Quanti aspetta gli ho detto in questi anni… 

Aspetta, devo cucinare. Aspetta, sento che dice questo in televisione. Aspetta, leggo questa pagina e arrivo. Aspetta, mi sto vestendo. Aspetta, sto parlando. 

Certo, in più di qualche occasione il mio “Aspetta” era giustificato. Certo i bambini devono imparare anche a portare pazienza, ad attendere il proprio turno, a lasciare spazio anche agli altri.
Ma molte altre volte, mi rendo conto, il mio “Aspetta” era più frutto di mancanza di voglia, di stanchezza, di indisponenza. Perché se mi sono appena seduta sul divano e mio figlio mi chiede un bicchiere di succo è logico che non ho nessuna voglia di alzarmi, prendere il bicchiere dalla dispensa e il succo dal frigo. Ma lui ha sete, che colpa ne ha, e il mio aspetta gli risulta incomprensibile.
Con questo non voglio autoaccusarmi di essere poco presente con i miei bambini. Ma sicuramente, e adesso sì mi accuso, spesso sono talmente presa dalle mille cose da fare, dai mille pensieri, dalle mille incombenze che l’aspetta mi esce così, senza che me ne renda conto, senza aver compreso veramente se la richiesta che mi viene fatta sia improrogabile o meno. Ed ho volutamente usato il termine “improrogabile”, non “importante”, perché dal loro punto di vista, quello dei bambini, è ovvio che la loro richiesta sia SEMPRE importante.
Ed è questo quindi quello che mi impegno a fare, soprattutto adesso che si avvicina l’estate ed avrò più tempo per stare con i miei figli. 

Dire “aspetta” il meno possibile, solo quando è necessario, e solo spiegando il perché devono aspettare.

Perché il tempo dedicato a loro è sempre prezioso, perché stanno crescendo in fretta, perché arriverà in un attimo il momento in cui io li chiamerò e loro mi diranno “Aspetta, sto finendo la partita”.

giovedì 2 maggio 2013

Sapete quello che si dice...

...sulle particolari dote degli uomini di colore?


Ecco, quando ieri Checco e Ebenezel, che pur non avendo ancora quattro anni sempre XY restano per cui il water è l'ultimo posto in cui fare pipì, dopo alberi e corsie d'emergenza dell'autostrada, hanno pensato bene di svuotare la vescichina contro il nostro ulivo in giardino…ho potuto constatare di persona che non sono solo dicerie. Chapeau. 
In più, insomma, era circonciso. Di nuovo chapeau.

mercoledì 24 aprile 2013

Ho letto: Ho il tuo numero



Dopo due libri piuttosto strong e lacrime versate a gogò, avevo bisogno di qualcosa di più leggero. Ed eccola qua, la mitica Kinsella.
La Kinsella non è solo I love shopping. Anzi, se le avventure di Becky Bloomwood hanno, onestamente, stufato, è in tutti gli altri romanzi, compresi quelli scritti con il suo vero nome, Madeline Wickham, che la scrittrice dà il meglio di sé.
La trama di questo, seppur un tantino inverosimile, è molto divertente: Poppy, a pochi giorni dal suo matrimonio, disperata per aver perso il suo preziosissimo anello di fidanzamento, in preda al panico per dover affrontare gli intellettualoidi futuri suoceri, come se non bastasse viene derubata del telefonino. Quando ormai tutto sembra perduto si accorge che in un cestino delle immondizie è stato lasciato nientemeno che un cellulare. Senza pensarci due volte se lo mette in tasca. Solo che si tratta di un telefonino aziendale abbandonato dalla dimissionaria assistente del capo. Avendo bisogno estremo di un telefono pensa bene di non restituirlo, ma di inoltrare tutti i messaggi e le mail di lavoro che riceve. E’ in questo modo che la sua vita si intreccia con quella di Sam, il legittimo proprietario del cellulare, con conseguenti disastri a catena.
Vabbè, non è difficile immaginare come va a finire.
E’ stata davvero una lettura piacevole, di quelle che il libro te le porti a letto e riesci pure a non addormentarti col naso tra le pagine. Mi ci voleva.

martedì 23 aprile 2013

Amici



L’amicizia tra Checco e Ebenezer (sì, si chiama come lo Scruge dickensiano…) continua. Siamo arrivati al punto che appena torna da scuola si piazza in giardino e comincia a chiamarlo a squarciagola. E piange disperato se per caso quello non risponde. E se lo vorrebbe pure portare al mare con noi (anche no…). E dice che è il suo morosetto (oddio…). Venerdì pomeriggio ha voluto che lo portassi fino al portone del suo condominio, si è seduto davanti e l’ha aspettato. Senza nessun timore. Nel frattempo io sono tornata a casa e ad un certo punto me li vedo sbucare insieme, mano nella mano.
Ed eccoli qua:

La cosa bella è che Ebenezer è nero. Voglio dire, è una cosa che si nota al primo sguardo. Eppure mai, né Checco né Paio, hanno detto qualcosa del tipo “Ma perché la sua pelle è scura?”. Mai. Come se fosse la cosa più naturale del mondo. Io sono biondo, tu moro. Io ho le maniche corte, tu lunghe. Io ho la pella rosa, tu marrone. E allora?
I bambini sono il nostro futuro. Se quei quattro (per modo di dire) deficienti (non per modo di dire, proprio deficienti) che siedono in Parlamento imparassero un po’ da loro…

mercoledì 17 aprile 2013

I miei ometti



Sì, stanno crescendo…

Ieri pomeriggio ero fuori in giardino con i bambini, quando vediamo passare in strada alcuni bambini stranieri che vivono nella nostra via. Uno di questi, un bellissimo bambino africano di nome Benazel (o Ebenazel, o Venazel, devo ancora capire), va a scuola con Checco. Appena lo vede Checco gli corre incontro. “Ciao Benazel! Dai, vieni a casa mia, guarda, questo è il mio giardino, dai entra! Dai mamma, vai a dirgli che può venire!”. Superata la diffidenza iniziale dopo un po’ il nostro prato ospitava lui, suo fratello, sua sorella e un’altra bambina indiana così bella che tempo 5-6 anni farà strage di cuori. E mentre Maschio Alfa rimaneva a bocca aperta davanti al perfetto italiano di questi bambini che manco i suoi alunni di quinta, Checco, da perfetto padrone di casa, offriva loro crackers e caramelle, tirava fuori i suoi giocattoli e i suoi libri, e raccomandava di togliersi le scarpe prima di entrare in cucina.
Ed io che tanto temevo la sua timidezza e la sua poca socialità ho dovuto ricredermi. Ero così contenta che continuavo a dirglielo “La mamma è molto orgogliosa di te!” E lui, in tutta risposta “Io sono molto orgoglioso di Benezel” (Sì, gli devo spiegare il significato di “orgoglioso”…)
 E poi accadono piccoli episodi come quello di stamattina che io ero in bagno a truccarmi e i bambini in cucina. Sento il Paio che starnutisce e Checco: “Fabio, hai la caccola! Aspetta che ti pulisco io!” E, davvero, piccolo, ha preso uno scottex e ha pulito il naso moccioloso del fratellino…
O la settimana scorsa che una notte il Paio si è svegliato e lui, probabilmente svegliato anch’egli dai richiami del fratello, si è alzato, ha raccolto il ciuccio per terra e gliel’ha dato. E poi entrambi si sono riaddormentati senza che papà e mamma si accorgessero di nulla. (l’episodio ci è stato raccontato la mattina successiva dallo stesso Checco, e non ho ragione di dubitare di lui).

Beh, poi c’è il Paio. Che da poco ha raggiunto i terrible two. Che questi terrible two nel caso suo sono veramente, ma veramente terrible. Che fa capricci strada, si butta per terra, urla e agita le gambe come un indemoniato. Che se gli prende un attacco di nervi è capace di scagliare a terra qualsiasi cosa che gli capiti sotto tiro, compresi piatti e bicchieri.
Ma che sta crescendo anche lui alla velocità della luce.
Ha imparato a cantare per esempio. E lo fa senza timore, anche davanti ad un pubblico. I suoi cavalli di battaglia sono “Tanti auguri a te”, “Ciao amore”, “Il pistolero” (Zecchino d’oro 2005) e quella dell’arca di Noè, di cui non ricordo il titolo ma ci siamo capiti (Ci sono due coccodrilli, ed un orangutango…).
E ha imparato a fare il ruffiano. Se lo sgrido, o alzo un attimo la voce, lui subito si avvicina con un “Cusa, mamma” e una faccina contrita davanti alla quale ogni incazzatura si dissolve. Che poi il bello è che me lo dice anche quando magari impreco contro un vasetto di marmellata che non riesco ad aprire; “Cusa, mamma”, lo stronzetto…
E adora le storie, farsele leggere, raccontare, e raccontarle lui stesso. “Leggi, mamma”, mi dice avvicinandosi con un libro in mano. Come si fa a dirgli di no? Così ci sediamo sul divano e inizio a leggere, ma non faccio in tempo ad arrivare alla fine della prima pagina che lui deve commentare e mi deve raccontare cosa succede dopo, oppure sente il bisogno impellente di dirmi che Nemo ha paura del motoscafo.

Ecco, poi se le danno tutti e due di santa ragione, sono due maneschi allucinanti, litigano per ogni cavolata, delle volte mi fanno talmente perdere la pazienza che li mollerei lì per scappare a New York, ma stanno crescendo insieme, fratello grande e fratello piccolo, e li amo da morire.

giovedì 4 aprile 2013

Ho letto: Venivamo tutte per mare


Venivamo tutte per mare

 All’inizio del secolo scorso una schiera di donne giapponesi prese una nave che le avrebbe portate a San Francisco. Con loro portavano poche cose e la foto di quello che sarebbe stato il loro marito, giapponese anch’egli, emigrato qualche anno prima e diventato direttore di banca, proprietario terriero, stimato professionista.
Peccato che una volta sbarcate scoprissero che la realtà era ben diversa: le foto che avevano in valigia ritraevano uomini diversi, oppure molto più giovani, e i loro mariti erano poveri braccianti negli sterminati campi della California.
Inizia quindi per queste donne una vita dura, ben diversa da quella che sognavano e immaginavano. E l’autrice la descrive in ogni sua parte, il rapporto con il marito, la maternità, la crescita dei figli, il lavoro, l’inserimento brutale in un’altra società, un’altra cultura, un’altra lingua.
Fino alla tragedia che è diventata storia: dopo l’attacco di Pearl Harbour i giapponesi iniziano ad essere visti come nemici, come spie, e come tali devono essere eliminati ed internati nei campi di concentramento.
Con poche, essenziali e scarne parole la Otsuka racconta una pagina di storia che troppo spesso passa in sordina.